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«Assandira», un noir sardo tra futuro e tradizione

Presentato fuori concorso alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, il film «Assandira» di Salvatore Mereu racconta della Sardegna, di innovazione e tradizione, di futuro e passato, di figli e di padri

Assandira di Salvatore Mereu, al cinema con Lucky Red e presentato fuori concorso alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, è un film antichissimo e allo stesso tempo nuovissimo. Parla di innovazione, di futuro, di figli. Ma parla pure di tradizione, di passato e di padri. Ed è proprio nell’eterna lotta tra padri e figli, tra quello che è stato e quello che vuole essere, quello che vuole insegnare e quello che, invece, pensa già di sapere, che trova la sua massima espressione.

È un film compatto, granitico, pieno di volti e di voci straordinarie: ogni attore è un quadro in movimento, con i suoi spigoli, le sue forme, i suoi occhi. Ogni scena è carica di tensione, di chiaroscuri, di tanti, piccoli dettagli.

È un noir in lingua, parlato in sardo (con poche incursioni di italiano e di tedesco, e qualche frase in inglese), e che punta tutto sulla tensione. Si comincia dalla fine e poi, lentamente, si torna all’inizio. Sappiamo già che cosa succederà, e in un certo senso siamo già preparati al peggio: alla pioggia e all’incendio che devasteranno l’agriturismo in cui il film è ambientato. Ma siamo anche preparati al senso di sconfitta e di perdita che si trascinerà nel corso del racconto. Quello che conta, anche qui, è il viaggio: e quindi seguiamo un magistrato nelle sue indagini, mentre prova a capire perché è successo quello che è successo. Mereu non ha fretta, e fa benissimo: lascia respirare il film e lascia sedimentare e lievitare l’atmosfera tesa e contorta della storia. In Costantino, interpretato da un bravissimo Gavino Ledda, trova un protagonista responsabile e capace di farsi carico di ogni momento, con la voce o con un’occhiata, nello scatto di un gesto o nella repressione di un sospiro. Sulla sua pelle, scurita dal sole e segnata dal tempo, c’è una mappa infinita di segni e di rughe, di forza e di testardaggine. E a un certo punto, più o meno a metà di Assandira, diventa interessante provare a seguire la narrazione affidandosi completamente al suo corpo e a quello che dice (di più: al modo in cui lo dice). Il sardo, qui, è un altro personaggio: è musicale, coinvolgente, è un ringhio o un gioco di consonanti.

La storia, ispirata al libro di Giulio Angioni (Sellerio), potrebbe svolgersi in qualunque parte del mondo, in qualunque terra di confine in cui nuovo e vecchio si scontrano, e potrebbe avere qualunque voce. Invece, ambientata in Sardegna, riesce a essere anche una storia italiana – con le sue contraddizioni, e con il suo scontro generazionale. E una storia europea – i giovani che viaggiano, che rientrano, che cercano la loro fortuna dove non pensavano di poterla trovare.

In Assandira c’è la fine del mondo contadino; o almeno, c’è la fine di quello che era. C’è l’estinzione del pastore, con la sua vita solitaria, dura e difficile; e c’è pure l’apertura alla novità, a quello che arriva e che può essere un’occasione – e non per forza, come pensa qualcuno, una maledizione. «Ai vecchi», dice Costantino, «non conviene discutere con i giovani: hanno sempre ragione loro». E così si piega alla decisione del figlio di tornare, di rimaneggiare la loro casa, la loro vita, e di farne un’attrazione per i turisti; si lascia ammaliare dalla nuora, lei tedesca, che sbircia e spia in continuazione, e da cui spesso si lascia addomesticare. Anche tra le persone – tra padri e figli, tra moglie e marito, e tra vicini – resiste una dimensione bestiale, come se tutto fosse ridotto al minimo, spogliato di qualunque accortezza o gentilezza. Le parole vengono lanciate come pietre, e incassate come pugni. E la fatica di ogni giorno diventa un piacere scomposto, ricercato, familiare e, a tratti, rassicurante. La Sardegna di Assandira non è la Sardegna del mare, della costa bianchissima, né degli hotel e dei resort; è la Sardegna pietrosa e incontaminata, quella che sembra ancora intoccabile e uguale; quella che sopravvive con poco, e che ha un’anima ancestrale. Il noir, le indagini, la ricostruzione dei fatti: sono l’ossatura del racconto, ma non la sua sostanza; la cosa più bella di questo film è la confessione silenziosa, sussurrata dalla voce narrante, di Costantino, è il suo viaggio nei ricordi ed è il testamento che lascia, da vecchio, da padre, da pastore, a chi vuole ascoltarlo.

fonte : Vanity Fair

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Mostra del Cinema di Venezia 2020, ecco perché Assandira di Salvatore Mereu meritava il Concorso

A vision fatta viene da chiedersi il motivo per cui il direttore Alberto Barabera non l’abbia inserito nella corsa al Leone d’Oro. Fuori concorso al Lido anche il piccolo/grande cortometraggio di Alice Rohrwacher, Omelia contadina

L’aveva detto il direttore artistico Alberto Barbera che il nuovo film di Salvatore Mereu “avrebbe meritato il concorso ufficiale”. A vision fatta viene da chiedersi il motivo per cui non l’abbia inserito nella corsa al Leone d’Oro (cinque italiani troppi? Magari uno tra i visti era veramente “di troppo”..) perché Assandira contiene davvero del grande cinema. E, a detta del regista stesso, “raccoglie tutti i miei precedenti film”. Collocato purtroppo nel fuori concorso, trova alla sua base l’omonimo romanzo di Giulio Angioni – a cui liberamente si ispira – mentre al suo cuore uno sguardo potente capace di rappresentare l’essenza del peccato originale.

Assandira “una parola antica che c’è sempre stata” è un luogo (meta)fisico (un ovile con casale nel cuore della Sardegna) che dalla purezza di un Eden arcaico muta in un inferno senza speranza. In esso si muovono tre personaggi diversamente legati i cui destini si condizionano reciprocamente seguendo pulsioni ruvide come il granito della magnifica isola che offre l’ambientazione. Film di generi contaminato (noir, melodramma, thriller..) si avvale di un protagonista eccezionale come Gavino Ledda, corpo e voce over di straordinaria peculiarità che lo stesso Mereu inizialmente temeva potesse “essere troppo ingombrante”. Invece il mitico ex pastore diventato glottologo-scrittore, nonché autore di Padre Padrone, è risultato una scelta naturale nei panni del vecchio Costantino, il pastore per antonomasia, portatore dei segni di una saggezza intrinseca ma troppo “innocente” per non cedere all’inganno. A circuirlo è suo figlio Mario ma soprattutto la biondissima e la “giunonica” nuora tedesca, Grete (la notevole Anna König), una valchiria arrivata ad Assandira con il preciso obiettivo di trasformarla in un agriturismo “etnografico”, in altre parole un parco tematico per turisti bifolchi dove le sacre tradizioni della Sardegna rurale mutano in spettacoli, travestimenti, giochi di bassa lega. Per quanto Costantino, che chiaramente vibra all’unisono con lo spirito di Gavino Ledda, intuisca la stortura di fondo (“a me lo vengono a dire cosa vuol dire giocare a fare il pastore..”) il Male si traveste da Bene portandosi appresso l’inevitabile deflagrazione.

Storia profondamente sarda ma altrettanto universale per l’arcaicità in cui affonda, offre stratificazione interpretativa per l’abbondanza di simboli (mai retorici perché ben usati) messi in e fuori campo, mentre denuncia con intelligenza il paradosso dell’ambivalenza propria della Storia: l’inesorabile progresso e la sua ineludibile ciclicità. E l’umanità, questo miracolo misterioso fatto di materia e spirito, ne esce vittima e carnefice, portatrice (in)sana di quel Peccato ab origine che troverà sempre un’Assandira da corrompere. Il film uscirà prossimamente nelle sale distribuito da Lucky Red.

A far da eco coerente al magnifico testo di Salvatore Mereu c’è fuori concorso al Lido il piccolo/grande cortometraggio di Alice RohrwacherOmelia contadina. Definito dalla regista stessa quale “azione cinematografica” (un genere che sa di fantastico come il cinema tutto di Rohrwacher), si sostanzia in un vero e proprio requiem all’agricoltura contadina: dall’alto una videocamera riprende delle gigantografie umane stilizzate trasportate a mano quali feretri da seppellire. Il rito funebre, accompagnato da banda popolare, è destinato a interrare le due sagome all’interno di grandi campi coltivati, mentre delle voci si alternano nel pronunciare le esequie. La preghiera laica che denuncia i veri killer dell’agricoltura contadina ha però una chiusa geniale: “ci avete seppelliti ma non sapevate che eravamo semi!”. Pastori e agricoltori, almeno in questo grande cinema “umanista”, sono salvi.

fonte : Il Fatto Quotidiano

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Assandira – Cinematografo

Salvatore Mereu mette a fuoco la Sardegna tradita: con Gavino Ledda, e un po’ di confusione. Fuori concorso.

Uno scrittore, Gavino Ledda, quello di Padre padrone, che fa l’attore. Uno scrittore, Giulio Angioni, che fornisce il libro da adattare, Assandira (Sellerio). Un regista, Salvatore Mereu, che scrive e dirige: Assandira è Fuori concorso alla 77. Mostra di Venezia.

Nel cast anche Anna König, Marco Zucca e Corrado Giannetti, il vecchio Costantino (Ledda) è fradicio, inzuppato da una pioggia torrenziale quanto inutile: troppo tardi ha spento l’incendio che s’è mangiato l’agriturismo in mezzo al bosco, Assandira. Nel rogo sono periti molti animali e il figlio di Costantino, Mario (Marco Zucca): la di lui moglie, la tedesca Grete (Anna König), incinta lotta in ospedale. Sul posto sono i carabinieri e il giudice Pestis (Corrado Giannetti) che a Costantino chiede conto di quel che è accaduto. Testimone oculare, e forse qualcosa in più, Costantino si mette a raccontare, con un flusso di coscienza che esula dal mero rendiconto: che è accaduto ad Assandira, e perché? Che cosa ci sta dietro, e dentro?

“Non lo sapremo mai. Sappiamo però che la natura umana è la più grande risorsa per raccontare una storia, anche a dispetto dell’intreccio, che è un vecchio arnese nel quale si può solo inciampare”, consegna alle note di regia Mereu, che in oltre due ore fa di narrazione mostrazione, e viceversa, dando potere alla parola affinché le immagini siano più eloquenti.

Chi è Costantino, un Candide buono per gli scatti dei turisti? Chi è Grete, una Madre madrona pronta a irretire e soggiogare? Chi è Mario, un debole alla mercé di Grete e un figliol prodigo e restio? Mereu affastella indizi e aporie, scorciatoie e strade sbagliate, chiedendo all’umano, e alla natura, dei misteri dietro le fragili certezze e le apparenti verità. Il giudice cerca elementi, Costantino dice molto e forse non tutto, Assandira è parola arcaica ed entità oscura. Fecondazione eterologa, incesto, orge e, su tutto, la Sardegna condannata all’attrazione, attaccata dall’esterno e implosa dall’interno: Mereu la prende larga e la tira in lungo, perché così va fatto, ché l’involuzione è recondita e annosa e non si può aver fretta.

Fascinoso, liquido e insieme pastoso, Assandira arriva a scioglimento in modo puerile, spurio e moralistico, ma i grumi rimangono e sono antichi, come le rughe sul volto di Ledda: non tutto funziona, anzi, l’involuzione antropologica tracima nella drammaturgia, la stracchezza si manifesta a più riprese, eppure, Mereu e i suoi echeggiano tempi, modi e significati nascosti, aviti, pericolosi. Più lucidità e consapevolezza avrebbero giovato. Dal 9 settembre in sala.

fonte: Cinematografo

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Assandira, la recensione: natura e progresso, acqua e fuoco, un film di contrasti

Un incendio doloso ha distrutto l’agriturismo Assandira, tirato su da una coppia – lui pastore sardo e figlio di un pastore, lei tedesca intraprendente – con il benestare non proprio entusiasta del vecchio Costantino Saru. Questi ha perso nelle fiamme il suo unico figlio Mario e viene interrogato dai Carabinieri come testimone informato dei fatti. Chi ha appiccato il fuoco?

Dall’omonimo romanzo (2004) di Giulio Angioni, riadattato da Salvatore Mereu con buona fedeltà (cambia la nazionalità della moglie di Mario, da danese a tedesca) e un insospettabile piglio da giallo-thriller che però non annulla la critica sociale e antropologica del testo originale, anzi la sottolinea con i movimenti nervosi della macchina da presa e gli sguardi scavati di padre e figlio Saru: lui è clamorosamente Gavino Ledda, pietra miliare della cultura sarda con Padre Padrone, prima libro e poi film dei Taviani che colpì, scandalizzò, commosse e vinse la Palma d’Oro 1977 su decisione del Presidente di Giuria Roberto Rossellini. In Assandira tiene banco e domina il film con vitalità e agilità insospettabili per un uomo di 81 anni, accompagnate da una voce fuori campo un po’ ridondante; perfettamente a suo agio davanti alla cinepresa, soggioga il figlio e viene soggiogato dall’ambigua nuora, la tedesca Anna Koenig (vista anche in quattro episodi di Dark) che aggiunge al film una strana e torbida sensualità che mette a disagio a contrasto con l’ostentata semplicità bucolica dei due Saru: il viaggio a Berlino, grottesco e surreale, è un compendio di quel che abbiamo appena scritto.

Assandira esce al cinema mercoledì 9 settembre, in settimane in cui la cronaca ha reso molto attuale il tema del turismo (ir)responsabile in Sardegna. Pur restando mille miglia lontano dai briatorismi della Vita Smeralda, Assandira si pone la non banale questione dell’equilibrio tra natura e progresso, raffigurati in un conflitto aspro e acuto che riconduce per forza di cose agli elementi primari: la terra, l’acqua, naturalmente il fuoco. Mereu pare assumere una posizione leopardiana, pessimista, sottolineando l’incomunicabilità – esaltata dai continui cambi di lingua e registro, dal sardo all’inglese all’italiano – tra le radici e il denaro dei forestieri: le messinscene a fini turistici di Assandira non sono prive di una venatura grottesca, così come la richiesta del “professore” (l’uomo che incoraggia Mario a investire sull’agriturismo) di reperire un bandito locale per aggiungere colore al quadretto. Alla fine prevalgono i sentimenti ancestrali, l’istinto di conservazione, il pudore, la vergogna, in un film netto, duro, ma non per questo respingente. Un film di contrasti: l’acqua, il fuoco.

fonte : Sky Tg 24

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Mereu torna a Venezia con Assandira: Gavino Ledda di nuovo sulla scena

“Zuppo d’acqua fin dentro alle ossa, Costantino si avvita sul pagliaio come un vecchio legno restituito alla terra dal mare in burrasca. La pioggia torrenziale ha appena finito di spegnere il fuoco che si è mangiato in una notte sola l’agriturismo in mezzo al bosco, Assandira. Ma la pioggia non ha spento il dolore, il rimorso bruciante per il figlio che è morto in mezzo alle fiamme e che non è riuscito a salvare. All’alba, i primi ad arrivare sono i carabinieri e il giovane magistrato: Costantino prova a raccontare loro cosa è successo in quell’ultima notte, a spiegare come tutto è cominciato”.

È la trama di Assandira, il nuovo film del regista sardo Salvatore Mereu selezionato per partecipare fuori concorso alla prossima edizione del Festival del cinema di Venezia. Mereu torna così al Lido a tre anni dall’ultima volta quando nel 2017 portò il cortometraggio Futuro Prossimo realizzato assieme agli studenti dell’Università di Cagliari. Questa volta tra i protagonisti del suo ultimo lungometraggio c’è un volto noto della cultura sarda: Gavino Ledda, autore del celebre libro autobiografico ‘Padre padrone’ e protagonista dell’omonima pellicola girata nel 1977 dai fratelli Taviani e premiata a Cannes con la Palma d’oro.

Assieme a lui davanti alla macchina da presa l’attrice Anna König e gli attori Marco Zucca, Corrado GiannettiSamuele Mei.  Il film è liberamente tratto dal libro ‘Assandira’ scritto dall’antropologo sardo Giulio Angioni scomparso nel 2017. La produzione è di Viacolvento e Rai Cinema.

fonte : Sardiniapost.it

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Ave Madre Natura, aiutaci a capirti

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C’era una volta Padre padrone

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Terra di transumanza

Foto di Giuseppe Tracanna
Monti della laga in “Abruzzo”
da “IL CENTRO” – PESCARA

ATRI. Immagini pastorali attraverso le montagne d’Abruzzo, dalla Maiella al Gran Sasso e dai Monti della Laga. Un poeta-pastore che riagguanta un pezzo della sua vita passata, legando l’Abruzzo alla sua terra natia, la Sardegna. Sono
questi gli ingredienti di «Terra di transumanza». 

E’ il titolo della suggestiva mostra fotografica che l’artista atriano Giuseppe Tracanna ha realizzato per riscoprire il fascino dei tratturi tra Abruzzo, Molise e Puglia. …………. «L’idea di questa iniziativa», spiega Tracanna, «nasce dopo l’incontro nel mio studio con il poeta sardo Gavino Ledda. L’autore di “Padre padrone”, dopo aver visto Atri, ha puntato istintivamente non verso il vicino mare, ma verso le montagne che si scorgono in lontananza. Siamo finiti, così, sulla Maiella, tra Mario, Giulio e Marino,
pastori doc che, gentilissimi, mi hanno offerto la possibilità di fotografare le greggi con in mezzo Gavino. Questi maneggiava gli animali con perizia e con il sorriso proprio di chi riassapora cose lontane della propria vita passata». ……
Marco Mutoschi

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Dal Corriere di Como del 06/03/2015

Le sue piante? Querce da sughero, lecci, corbezzoli, lentischi, ginepri e pini marittimi. Un libro, la storia vivente della natura
sarda. E lui, nell’anno di Expo, vuole donarlo alla comunità lariana. «A patto che se ne curi», dice.
«Io mi sento l’erede di Plinio il Vecchio, l’erudito di origine comasca che morì per la scienza e con la sua Naturalis historia ha
proseguito uno studio di conoscenza della natura partito già con il poeta Empedocle. E mi sento anche l’erede di Lucrezio, il
poeta del De rerum natura».
Così nel 2012 parlò nella Sala Benzi del liceo classico “Alessandro Volta” di Como l’autore del romanzo Padre padrone Gavino
Ledda, classe 1938. Storia di un bambino di 6 anni che viene costretto dopo pochi giorni di scuola – era il 1944 – ad
abbandonare l’istruzione per aiutare il padre a governare il gregge nei pascoli di Baddhevrùstana. Sarà il reclutamento
nell’esercito a 21 anni a permettergli di fuggire.
Lo scrittore sardo, dopo il successo planetario del libro e del film che i fratelli Taviani ne trassero (non convincendolo del tutto)
nel 1977, vincendo la Palma d’Oro al festival di Cannes, ha vissuto altri calvari: oltre vent’anni di crisi artistica ed esistenziale,
un tunnel da cui è uscito conquistando una parola poetica del tutto nuova, che adesso sta riversando in una trilogia di romanzi e
in una fiaba.
Una storia letteralmente “da romanzo” quella di Gavino, pastore analfabeta per 15 anni. Schiavo del padre Abramo. Una vita
unica, tutta in salita, che con la maggiore età ha ripreso in mano con gli studi. In meno di 10 anni ha potuto prendere il diploma
e poi la laurea, in Glottologia (1968), lui che era partito analfabeta. E si è ritrovato assistente di linguistica sarda e filologia
romanza all’Università di Cagliari: mai successo nella storia. Ma non condivideva le regole del mondo accademico («Non mi
permetteva di esprimermi come artista»), e così se ne è andato.
E adesso dona a Como il suo orto botanico, realizzato impiegando i proventi del successo di Padre padrone: un appezzamento
di quasi 6 ettari di terreno a pochi minuti da Siligo, il suo paese. In tutto circa 5.000 essenze autoctone, per documentare tutte le
varietà di piante tipiche della Sardegna. Anni fa si era battuto perché il paese non fosse invaso da cave abusive di silicio.
Ricevendo fucilate a pallettoni sulla porta di casa.
Poche settimane fa in un’intervista al domenicale del “Corriere della Sera” La Lettura, Ledda aveva lanciato un appello per
salvare la casa paterna di Siligo e trasformarla in scuola e centro culturale. In tutto servono circa 200mila euro. E poi c’è come
detto l’orto botanico, comprato nel 1978. «Curo ancora tutto io con l’aiuto di un compaesano», dice Gavino, che percepisce
dallo Stato un vitalizio ai sensi della Legge Bacchelli. «Credo sia un unicum per estensione e spirito, questo orto botanico che
prima era un appezzamento coltivato a grano. Per me è stato ed è tuttora un libro. Connesso alla terra. Per i primi anni è stata
dura. Adesso c’è bisogno di qualcuno che se ne occupi, serve ad esempio un botanico che inventari le essenze. Comaschi,
aiutatemi, in attesa che il nuovo Gavino torni a scrivere con la parola nuova che gli ha insegnato la natura. Sto preparando una
trilogia in cui racconterò tutto il mio travaglio esistenziale nello scontro con le lingue ufficiali. Io sono stato marchiato a fuoco
dalla natura, che parla attraverso di me senza bisogno di alfabeto».
Lorenzo Morandotti

Foto di Aimone Sechi

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Salvate la casa di padre padrone

8 febbraio 2015

Carlo Vulpio ( Corriere della Sera, la Lettura, 8 febbraio 2015 )

Lo scrittore sfida i fratelli e i nipoti e chiede aiuto ai lettori

«Qui fui concepito, non vendetela: sarà luogo di incontri»

Siligo (Sassari)

«Il mio legame con la casa paterna è ancestrale». Chiunque pronunciasse questa frase rischierebbe di scadere nella retorica.
Non Gavino Ledda, il pastore analfabeta che diventò scrittore e glottologo e che da allora non ha mai usato una sola parola a
caso. Ledda, com’è noto, è l’autore di Padre padrone, un capolavoro della letteratura mondiale tradotto in quarantasette lingue
che quest’anno compie quarant’anni e dal quale i fratelli Paolo e Vittorio Taviani trassero l’omonimo film, vincitore della Palma
d’oro a Cannes nel 1978.
Gavino Ledda ha settantasei anni, i capelli folti e neri, il fisico asciutto e la parola tagliente. Vive nel paese in cui è nato, a Siligo,
nell’entroterra sassarese, dove si trova anche la campagna di Baddevrustana (Valle frondosa) in cui il bambino Gavino venne
«deportato» a sei anni da suo padre Abramo e crebbe in perfetto isolamento fino ai dieci, «fratello delle pecore più che dei miei
stessi fratelli». A Siligo, in via Vittorio Emanuele 54 (che in realtà ha un doppio nome, perché si chiama anche via Francesco
Cossiga), c’è la casa per la quale Gavino sente di avere un «legame ancestrale» e che dopo la morte del padre-padrone-
patriarca Abramo (nel 2007, a 99 anni e due mesi) i suoi fratelli hanno deciso di vendere, scontrandosi con Gavino, che invece
non vuole, perché quella casa, dice lui, «è la casa del Padre padrone, è un po’ il Colosseo di Siligo e della Sardegna e
andrebbe salvata, ristrutturata e trasformata in una scuola, dove non soltanto io, ma anche altri scrittori, musicisti, registi,
scienziati possano tenere lezioni, conferenze, letture».

Gavino dice di sentirsi come Orazio Coclite, l’eroe romano che da solo difese il ponte Sublicio dagli Etruschi di Porsenna, e
racconta che la stessa cosa accadde quando il Comune di Siligo «per un pugno di dollari» voleva trasformare Baddevrustana in
una groviera di cave di silicio e lui fu il solo ad opporsi («Andai anche dal procuratore di Sassari e poi i carabinieri del Noe
scoprirono che in quelle cave ci sotterravano i rifiuti»), mettendosi contro il Comune e contro la sua stessa famiglia, dato che il
sindaco di Siligo era (ed è tutt’ora) uno dei suoi quattordici nipoti, Giuseppina, figlia di Giacomo, il quarto dei sei fratelli Ledda,
dei quali Gavino è il primogenito, con tutto ciò che questo significa in una famiglia e in una comunità agropastorale come quella
in cui Gavino è nato e cresciuto.

«In quella casa – racconta Gavino, mentre attizza la brace per arrostire le salsicce e riscaldare il pane -, io non sono soltanto
nato. In quella casa sono stato concepito. Davanti al fuoco del camino in pietra rossa, un giorno in cui rimasero soli, perché mio
padre Abramo e mia madre Maria Antonia non erano ancora sposati, lui non esitò a coddhare lei. Coddhare in sardo è un
termine forte, richiama un atto deciso, quasi di violenza, anche quando i due sono consenzienti. In italiano potremmo tradurlo
con avvinghiare, abbracciare una persona prendendola per il collo, per poi possederla fisicamente».
Questo racconto di Gavino Ledda sulla sua venuta al mondo non è soltanto inedito, è la parte della storia di Padre padrone
rimasta dietro le quinte, forse perché è la parte più delicata, quella che ha rischiato di sconvolgere da subito gli equilibri del suo
gruppo familiare e della comunità silighese, dato che riguarda il «sangue» e tutto ciò che dal «sangue» è regolato: attribuzione
certa della paternità, concepimento e nascita all’interno del matrimonio, imposizione del nome al neonato secondo una precisa
gerarchia. «E infatti quando nacqui io – racconta Gavino Ledda -, in un primo momento tutti pensarono che fossi settimino, ma
poiché non avevo l’aspetto di un bimbo nato prematuro parenti e vicini cominciarono a sospettare che qualcosa non quadrasse.
E allora i miei genitori, invece di chiamarmi Filippo come mio nonno paterno, poiché dovevano pagare il prezzo per la loro
“mancanza”, dovettero scegliere un nome diverso. Così mi chiamarono Gavino, che in Sardegna è un santo molto popolare e
che francamente mi piace anche di più di Filippo».
Gavino Ledda dice di conoscere suo padre fin da quando era nel ventre materno e di averlo visto per la prima volta in chiesa
quando lui, il padre-padrone-patriarca Abramo, sposò sua madre. Dice anche di aver provato rabbia nei suoi confronti, mai odio.
E che dopo la sua morte – sembra un paradosso, ma è solo apparente – non ne ha avvertito la mancanza «perché da lui ho
avuto molto e senza di lui non sarei stato quello che sono, non avrei pensato come penso». E tra le cose che pensa oggi
Gavino c’è la convinzione che la casa paterna non debba essere venduta, né per sessantamila euro, «diecimila miseri euro per
ciascun fratello, o forse anche cinquemila se ci mettiamo i nipoti», né per alcun altro prezzo. Questa, dice Gavino, è la sua
«battaglia silenziosa» da otto anni a questa parte, la terza battaglia dopo quella – vinta – contro le cave di silicio a

Baddevrustana e dopo quell’altra – persa – della vendita della casa, in realtà poco più che una capanna, in cui, sempre a
Baddevrustana, suo padre cercò di trasferire tutta la famiglia. Gavino, a differenza dei suoi fratelli, a Baddevrustana era
cresciuto e non avrebbe mai voluto che quella casa fosse venduta. Ma il padre fu costretto a farlo, perché i fratelli di Gavino, pur
di non finire anche loro «deportati» in campagna, cominciarono ad appiccare incendi intorno, e sempre più vicino, al podere del
padre. Abramo capì come stavano le cose, ma non disse mai nulla. Fino a quando senza spiegarne il motivo annunciò che
aveva venduto la casa di Baddevrustana. Il significato di quel gesto era chiaro: se non la volete, non l’avrete, perché non ne
siete degni.
«Per me – dice Gavino -, fu una ferita profonda. E oggi non voglio che finisca così anche la casa di Siligo, questa sarebbe una
ferita insanabile». Quella ferita profonda, Gavino l’ha sanata negli anni, creando un grande orto botanico di sei ettari in cui ha
piantato personalmente tutte le specie vegetali dell’Isola (la Regione si era impegnata ufficialmente a farne un parco naturale e
letterario, ma poi si è eclissata). Quest’altra ferita invece teme di non poterla curare. E’ vero che è finalmente riuscito a
convincere i fratelli a vendere a lui le rispettive quote della casa del Padre padrone, ma è anche vero che quei soldi Gavino
Ledda, che campa con il vitalizio della legge Bacchelli, non li ha. Ma spera di farcela, magari con l’aiuto dei suoi lettori
(«potremmo fare una cooperativa»), ai quali ha promesso una Trilogia, che uscirà in estate, il cui primo racconto ha per titolo
L’infiorescenza della luce. Ed è una fiaba.

Carlo Vulpio
Corriere della Sera, la Lettura, 8 febbraio 2015

Prime iniziative per salvare la casa dove Gavino Ledda ambientò «Padre padrone»

L’appello lanciato da Gavino Ledda attraverso «la Lettura» per salvare la casa paterna di Siligo (Sassari), in cui è ambientato il
romanzo autobiografico Padre padrone , è stato raccolto da molti lettori, che scrivono per sapere come possono contribuire
all’acquisto della casa di Ledda e alla sua trasformazione in scuola e centro culturale. Gavino Ledda sta costituendo con alcuni
amici una fondazione, che garantirà dell’impiego delle somme raccolte. Intanto, un amico che lo scrittore conobbe a Pisa
durante il servizio militare, Rodolfo Crocchini, di Campi Bisenzio (Prato), che era sergente e aiutò Ledda a fare i primi passi in
greco e in latino, all’insaputa dello scrittore ha inviato una lettera all’imprenditore Diego Della Valle affinché intervenga e salvi la
casa di Padre padrone . «Gentile dottor Della Valle ” scrive tra l’altro Crocchini “, i luoghi del romanzo sono di altissimo valore
culturale e vanno salvati, proprio come ha fatto lei con la meritoria sponsorizzazione restaurativa del Colosseo di Roma. Aiuti
anche Gavino a realizzare il suo sogno». Servono 60 mila euro per l’acquisto della casa e altri 150 mila per trasformarla in una
scuola.
Vulpio Carlo
Pagina 27
(16 febbraio 2015) – Corriere della Sera